Vincere o convincere? - riflessioni su uke e tori - Daniele Bevivino

 

Il web è pieno di articoli e opinioni sul ruolo di Uke, su come deve comportarsi chi incarna il ruolo di chi riceve la tecnica o, fondamentalmente, del perdente nella simulazione di un attacco e della sua soluzione all’interno di un kata o di una determinata tecnica prestabilita. Alla fine dei conti le varie teorie, le più disparate, riguardano quasi sempre il Gendai Budo, ossia quelle discipline nate non più ad uso e consumo della casta Samurai ma per la gente comune dal ventesimo secolo in poi.

Perchè non riguardano le Koryu, le scuole antiche? Semplicemente perché le scuole antiche, piaccia o no, hanno già definito e cristallizzato ruoli e modalità dell’allenamento, almeno di quello dei fondamentali da tramandare, e non necessitano delle speculazioni e degli aggiustamenti successivi, fatti spesso per risolvere con fantasiose teorie i problemi che non si risolvono durante la pratica in senso stretto. Nelle Koryu questi due ruoli, ossia chi fa la tecnica/vince e chi la subisce/perde vengono spesso definiti con nomi diversi da Uke e Tori ma per comodità di esposizione continueremo ad utilizzare questi più famosi e riconoscibili.

Prima di tutto, il ruolo di Uke nelle Koryu è nella maggior parte dei casi di lavoro in coppia quello di guida all’esecuzione di una buona tecnica da parte di Tori, e non quello di manichino più o meno abile che permette al praticante esperto di portare una tecnica indipendentemente dall’abilità di chi ha davanti. Anzi, Uke è spesso, proprio per convenzione, interpretato da chi dei due nella coppia di praticanti ha l’esperienza maggiore, in modo che sappia oltre che regolare il ritmo e l’intensità dell’attacco anche portarlo in maniera corretta. Immaginiamo di dover studiare la difesa da un attacco di spada che non rispetti misure e angoli, un attacco che non tagli, che non arrivi a bersaglio…vale la pena allenare una parata, un’uscita, una tecnica qualsiasi su un attacco del genere? Per questo motivo al praticante meno esperto viene lasciato il ruolo di Tori, di colui che dovrà difendersi e poi volgere la situazione a suo favore, colui che vince quindi, ma solo grazie alla precisione di un Uke che, finché Tori non sarà veramente in grado di agire correttamente, continuerà a metterlo sotto pressione con la sua esperienza, affinché Tori possa imparare esclusivamente la risposta corretta e non tante risposte dubbie ad altrettanti attacchi scorretti, con il rischio, o la certezza, di prendere cattive abitudini.

Chiaramente andando avanti nel tempo, per una visione globale del Kata, chi prima interpretava Tori dovrà apprendere anche il ruolo di Uke per poter passare agli stadi successivi.

Questa non è una regola fissa che vale per tutte le Koryu in assoluto ma lo è per la maggior parte di quelle che prevedono lavori in coppia basati su Kata più o meno lunghi, almeno come trasmissione tradizionale. Poi ci sono ovviamente le didattiche dei vari insegnanti che possono introdurre esercizi o modalità di apprendimento diverse, ma il punto non è quello di stabilire quale sia lo standard più diffuso ma evidenziare come il ruolo di Uke sia associato all’abilità piuttosto che al ruolo di vittima sacrificale, spesso costretta a reazioni innaturali e illogiche. Nella finzione del Kata Uke perde, è vero, ma solo se Tori è davvero in grado di vincere.

Nel Gendai Budo invece, ma in particolare nell’Aikido, si è diffusa a causa della diversa filosofia che non prevede un allenamento finalizzato al combattimento, né sportivo né reale, un modo di concepire la figura di Uke del tutto estraneo alle arti marziali nipponiche e che, alla lunga, rischierà di minare sempre di più la credibilità di certe discipline.

Uke è spesso chiamato a dover comprendere le motivazioni di Tori, che diventa il fulcro dell’avvenimento che si sta rappresentando, dovendo così rinunciare alle proprie che, paradossalmente, sono quelle che avrebbero scatenato l’evento stesso. Succede quindi che nel 99% dei casi Tori sarà interpretato dal praticante esperto che chiederà a Uke di attaccare in un determinato modo e di reagire in un altro, solitamente più blando della sua risposta, di non fare resistenza perchè potrebbe ricevere dei colpi o perchè in teoria li dovrebbe aver già ricevuti ma al tempo stesso non potendo, per convenzione, fare quello che chiunque farebbe: colpire, indietreggiare, avanzare o resistere in virtù delle occasioni presentate da Tori.

Mentre nel Kata delle Koryu i movimenti di Uke sono sì decisi a priori, ma derivano proprio dalle possibilità di rappresentare un problema da risolvere per Tori, approfittando quindi di aperture e angoli favorevoli, nell’Aikido avviene qualcosa di apparentemente simile ma poi fondamentalmente diverso quando ad Uke si chiede, in pratica, di lasciar lavorare Tori senza approfittare dei suoi errori, senza essere abile almeno quanto Tori se non di più.

Facciamo un esempio basato sull’esperienza personale di chi scrive.

La prima volta che si partecipa ad una lezione di Kenjutsu dopo aver appreso i movimenti fondamentali si viene istruiti come Tori nell’apprendimento di un Kata. Uke solitamente è un Senpai, un allievo di grado o esperienza superiore quindi, o il Maestro stesso. A pensarci è logico: come faccio ad attaccare correttamente o a schivare un colpo se chi ho davanti non sa tenere una spada in mano, barcolla sulle gambe, sbaglia le distanze o se ne sta imbambolato come un bersaglio di paglia?

La prima volta che si partecipa ad una lezione di Aikido invece, il Senpai o il Maestro faranno la tecnica sul nuovo arrivato. Ma non solo, gli diranno quando deve girare, cadere, sdraiarsi o rotolare…e fin qui potremmo anche vederla come una sorta di Kata da una diversa angolazione ma…il problema è che tutte le sue possibili reazioni come lasciare la presa, schivare un colpo o renderlo, resistere ad una presa o ad una proiezione verranno castrate, anche quelle più logiche. Certo, anche nel Kata di Kenjutsu non potrete fare come volete , scappare, indietreggiare, lanciare la spada e così via, ma tutte le azioni di entrambi saranno finalizzate, pur nella loro liturgia, a compiere il movimento più intelligente dal punto di vista dell’ipotetico scontro reale e più allenante per entrambi nell’ottica dell’apprendere solo movimenti e atteggiamenti corretti, spendibili poi, idealmente, nel combattimento reale.

Nell’Aikido, non sempre ma in maniera sempre più diffusa, la “costruzione di uke”, sia che venga trasmessa in maniera standardizzata, come avviene in alcune scuole “tradizionali”, sia in maniera meno formale, passa sempre dal far allenare Tori per poi attendere il proprio turno ed incarnare, questa volta, il ruolo di esperto. E qui sta il punto: mentre nelle Koryu si immagina che entrambi i contendenti siano esperti che faranno di tutto per rendere la vita difficile all’altro, e che si muovono quindi con accortezza, completo controllo e sapienza, in Aikido si finisce per far interpretare ad Uke, in virtù di un “donarsi” per lo studio altrui, il “fellone”, il “buzzurro” che attacca dapprima in maniera violenta, spesso strategicamente motivata, ma che subito dopo si scorda di essere l’attaccante e comincia a seguire le varie evoluzioni di Tori in maniera passiva, accomodante o comunque non permeata degli stessi principi che le arti marziali ma ancor di più la disciplina stessa si propone di studiare. Attacca sull’angolo a 45° o da dietro perché gli viene spiegato che è strategicamente corretto ma poi non esita a tenere una presa con due dita, a mostrare la schiena, a far ciondolare un braccio o ad evitare di parare un colpo che arriva così largo che se ne potevano parare altri due nel frattempo…

Certamente la pratica dell’Aikido non deve ricalcare le orme delle scuole antiche soltanto per appartenenza geografica ma sembra assurdo che non si faccia tesoro, proprio in quanto disciplina dedicata alla risoluzione dello scontro, del sapere del passato. Non è mia intenzione negare questo tipo di pratica, stigmatizzarla come scorretta in assoluto. Ognuno ha le sue finalità e non è neanche giusto dire che tutto l’Aikido è così, anzi forse è scorretto parlare di Aikido in senso figurato, come di un’entità a sé e bisognerebbe parlare di situazioni in cui si pratica secondo i dettami di questa idea di Budo . Mi chiedo sempre però, avendo negli ultimi anni approcciato un diverso tipo di allenamento, se in questo tipo di pratica così diffusa, questa fase di comprensione reciproca, di accondiscendenza tra Uke e Tori per studiare principi eticamente superiori al mero combattimento, non si possa spostare più avanti nell’apprendimento e riservare invece, ai primi anni di pratica, un approccio più simile a quello delle Koryu, dove Uke possa comportarsi con pari dignità di Tori, a cominciare dalla qualità e scelta dei movimenti, potendo inoltre nella tecnica libera rappresentare un ostacolo da aggirare, un problema da risolvere, e non soltanto incarnare l’ansia da prestazione di chi deve lanciarsi al momento giusto. Se Uke fosse lasciato libero di mollare una presa ad esempio, Tori dovrebbe per forza studiare meglio il concetto di Aiki, senza poter ricorrere a spiegazioni, le solite, tipo “se fosse vero”, “adesso è per imparare, è per studio quindi tienila” e via così che oltre a confondere Uke hanno il grosso, gigantesco difetto, di non creare in Tori l’esigenza di una tecnica corretta. Perchè la tecnica corretta di Tori nel solito modo non sarà, come nelle Koryu, in funzione di un attacco corretto, di un movimento consapevole e perfetto da parte di Uke, ma di un’istruzione impartita a priori, di un convincimento che spesso avrà poco a che fare con l’azione marzialmente corretta. Non si potrebbe, ad esempio, lasciare ad Uke il suo ruolo, se non di guerriero, di essere umano? Lasciare che resista, lasciare che molli una presa, che provi ad usare la mano libera, ad accucciarsi o alzarsi, a non lanciarsi in cadute forzate? Non potrebbero Uke e Tori allenarsi sempre secondo gli stessi principi e non soltanto in maniera alternata forzando lo switch tra “illuminato” e “fellone”? Non potrebbe questo modo di praticare incarnare ancor meglio il proposito di Armonia professato dal fondatore Ueshiba Morihei, ponendo cioè dei problemi da risolvere in maniera Aiki-do e non presentando problema e soluzione insieme da imparare a memoria? Se tornando a casa ci si ritrovasse a rimuginare sul fatto che durante l’allenamento non si è riusciti a fare neanche mezza tecnica perchè Uke è davvero bravo, non sarebbe questo un ottimo motivo per andare all’allenamento successivo?

Un mio insegnante mi ricordava spesso che “l’Aikido non serve a vincere ma a convincere” e questo avviene attraverso la tecnica così particolare di questa disciplina. Ma se il nostro compagno lo convinciamo soltanto a parole, o con la violenza se non si adatta alle nostre istruzioni, è ancora Aikido? Vale ancora la pena di inscenare uno scontro fisico alla maniera degli antichi giapponesi?

La mia impressione è che se rinunciamo alla pretesa dell’infallibilità, alla teoria del 4X4 (“porta pazienza per quattro tecniche, poi tocca a te per altre quattro”), all’apparire invece di “essere qui ed ora”, di teorie su Uke non ne abbiamo bisogno e augurarsi un Uke più bravo, sveglio e naturale di quanto siamo noi stessi sia l’unico modo per trovare davvero l’Armonia nel contrasto.

di Daniele Bevivino (su http://martialworld.it/ )

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