Mantenere la faccia - Lafayette De Mente

Mentre nei paesi cristiani dell'Occidente si formavano i principi che incorporavano concetti di individualismo e responsabilità personale per le proprie azioni, la morale giapponese enfaticizzava responsabilità di gruppo e soppressione dell'individualismo.

 

In Occidente uno si può comportare in maniera oltraggiosa, insultare persone e comportarsi da "incivile" ma finchè non commette atti che vanno contro principi ben conosciuti di comportamento come furto, rapimenti o omicidi, può ritenersi relativamente salvo da persecuzione della legge.

In Giappone, al contrario, il modo in cui uno parlava e si comportava era equiparato a morale e fallire nella conformità di un sistema altamente definito di condotta poteva portare a conseguenze disastrose.

La morale poteva coinvolgere semplice gesti, come un inchino fatto "come si deve", che fossero visibile ad ognuno.

Siccome modi di comportamento e morale erano spesso la stessa cosa, i giapponesi divennero estremamente sensibili alle infrazioni dell'etichetta. E facevano maggiore attenzione nel non commettere errori e nel non offendere gli altri, nonchè di prestare attenzione agli eventuali torti subiti.

I giapponesi vedevano i propri errori o qualunque comportamento "immorale" da parte di altri come un difetto della faccia (kao) .

Oltre all'estrema precauzione nei propri comportamenti che si attenevano, il più possibile, alle richieste delle regole di etichetta, divenne loro caratteristica l'evitare di rischiare di fare errori, quindi non prendendo iniziative, cercando di rimanere fuori da qualunque responsabilità, di parlare in modo vago etc...

I giapponesi erano ugualmente preoccupati di "perdere la propria faccia" a causa delle leggerezze o insulti degli altri come lo erano di far perdere la faccia a altri a causa dei loro stessi "peccati".

Se un torto era frutto di arroganza, e specialmente se era premeditato, l'unico modo per essere condonato era tramite un "adatto atto di vendetta".

Questo rese il tutto difficile e pericoloso. In tempi antichi, alcuni samurai che si trovavano in situazioni che facevano "perdere la faccia" si confrontavano in duelli. La maggioranza delle persone risolvevano il problema di "compiere un adatto atto di vendetta" con intrighi di vario genere.

I giapponesi del giorno d'oggi, specialmente quelli esposti maggiormente al mondo occidentale, non sono più cosi severi come i loro precedessori ma danno comunque un'importanza vitale alla "faccia" e ciò deve essere preso in considerazione, sempre!

L'importanza della "faccia" è indicata in diverse espressioni giapponesi: "kao wo tateru" (salvare la faccia oppure prevenire disgrazia) , "kao wo tsubusu" (perdere la faccia), "kao ga hiroi" (avere una faccia larga, cioè essere una persona ben conosciuta), "kao wo tsunagu" (faccia legata, cioè consolidare i contatti di qualcuno), etc...

Quest'ultimo punto è un punto fondamentale dove aziende straniere sono coinvolte. Uno dei maggiori reclami dei giapponesi sugli stranieri, e particolarmente sugli americani, è che piuttosto di avere uffici fissi in Giappone mandano sempre gente diversa. I giapponesi si sentono alquanto insicuri quando devono aver a che fare sempre con "facce nuove" e sono sempre meno interessati nel fare affari con questo tipo di ditte.

Stranieri che trattano con giapponesi in privato o in ambito lavorativo devono tener ben presente che ogni tipo di criticismo personale o professionale possa essere preso molto più seriamente di quanto si potrebbe ipotizzare.

Altri "peccati" frequentemente involontariamente commessi da occidentali sono di non far sedere l'ospite giapponese su una sedia o posto non appropriato al suo status, dare speciale attenzione ad un membro di un gruppo di giapponesi subalterno perchè magari parla l'inglese, imbarazzare una persona nel sottolineare che una cosa appena da lui detta non è accurata, non accompagnare l'ospite di un certo livello all'ascensore o alla macchina quando parte, non ringraziare per speciali favori e non riuscire a fare quanto promesso o aspettato e non scusarsi.

 

Tratto da "The japanese have a word for it" di Boyè Lafayette De Mente

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