Seppuku - Terminologia

KAIZOEBARA

                                   

seppuku assistito portato a termine per l’intervento del kaishakunin, l’assistente incaricato della decapitazione, divenuto legittimo all’epoca Muromachi (1538 – 1573)

 

TSUMEBARA

                                   

seppuku imposto; nell’epoca Edo i samurai condannati alla pena capitale dovevano uccidersi con lo tsumebara

 

KAISHAKUNIN

           

assistente incaricato di decapitare colui che effettua il seppuku

 

DAIKUBI

                                   

operazione “di precisione artistica” della decapitazione, soprattutto del XVII secolo, che permetteva alla testa di rimanere ancora congiunta al collo attraverso un sottile lembo di carne, evitando che rotoli sgraziatamente via

 

OIBARA

                                   

morte volontaria per seguire nella morte un essere cui si è affezionati (il proprio signore, il proprio maestro…)

 

JUNSHI

                                   

morte sacrificale, accompagnamento nella morte. Questo sacrificio del servo alla morte del suo padrone, inizialmente imposto, venne praticato soprattutto nei clan guerrieri, a titolo volontario nelle situazioni di combattimento. Con la pace Tokugawa, nei primi decenni del XVII secolo, il junshi poteva aver luogo soltanto dopo la morte per causa naturale di un daimyo. Nel corso del decennio 1160 – 1670 il bakufu pose termine a questo costume.

 

FUNSHI

                                   

morte volontaria di intento aggressivo, motivata dalla collera, dispetto, risentimento, indignazione, protesta.                 

 

KANSHI

                       

morte volontaria per rimostranza, per censura

 

MUNENBARA

                                   

seppuku per risentimento, vendetta, destinato a riparare un affronto subito o a vendicarsi di un’ingiuria o di un’ingiustizia                          

 

SOKOTSUSHI

                                   

“morte per negligenza”. Morte volontaria destinata ad espiare una storditaggine                                     

 

TAMESHIMONO

                                   

letteralmente “oggetto da esperimento”. Cadavere o corpo vivo di prigioniero o di condannato sul quale si provava il taglio della lama                                

 

TSUJIGIRI

                                   

aggressione di strada cui talvolta di dedicavano i giovani samurai per avventura, nonché per provare il taglio della lama               

 

SHINJU

                                   

letteralmente “in fondo al cuore”. Ogni comportamento atto a far conoscere la verità dei sentimenti, in particolare il tipo di suicidio motivato dalla passione amorosa o dalla tenerezza familiare. Lo Shinju amoroso, che conobbe il suo apogeo nella letteratura teatrale del XVIII secolo, viene anche chiamato Joshi, “morte passionale”. Lo Shinju familiare viene chiamato “oyako shinju” o “ikka shinju

 

CERIMONIALE DELLO TSUMEBARA

 

colui che lo doveva eseguire procedeva a delle abluzioni ed annodava i suoi capelli, rivestiva un kimono bianco, leggermente colorato di un blu molto pallido, senza il segno del blasone. Poteva formulare le sue ultime volontà e scrivere una lettera soltanto con un permesso eccezionale.

Si dirigeva poi verso il luogo del supplizio: talvolta una sala di un tempo buddhista, oppure un padiglione appartato nella residenza aristocratica ove era stato posto agli arresti in attesa della sentenza, o spesso semplicemente uno spazio delimitato nel giardino con tende o paraventi di color bianco, in segno di lutto. Là si trovavano orientate verso Nord delle stuoie ricoperte di stoffa bianca sulle quali si sedeva. Venivano anche a volte utilizzati tappeti di feltro rosso che avrebbero assorbito il sangue. Venivano anche prese delle precauzioni di contorno, ad esempio se la cerimonia aveva luogo nel giardino, ricoprire di stuoie ben congiunte l’itinerario del condannato, per evitare che debba indossare delle calzature: in una situazione di tale stress il condannato potrebbe rischiare di perderle senza nemmeno rendersene conto – cosa molto incresciosa.

Testimoni della scena erano i funzionari che rappresentavano lo shogun o il daimyo e degli assistenti chiamati kaishaku, incaricati di sorvegliare ed aiutare il condannato abbreviandone la sua agonia.

Il samurai ascoltava la lettura della sentenza che lo condannava a morte; talvolta gli veniva offerta un’ultima tazza di saké. Veniva poi portata davanti a lui una daga di 9 sun e 5 bu (cioè 30 centimetri) posta in un vassoio con la lama nella sua direzione. La lama era avvolta di carta bianca e solamente all’estremità sporgeva di 2 bu e 5 rin (7 millimetri). In taluni casi la severità del giudizio veniva aggravata dall’impiego di lame smussate.

Il condannato denudava la parte superiore del corpo ed abbassava la cintura sino al basso ventre, poi prendeva la daga a l’affondava nel fianco sinistro tagliando fino al fianco destro, per poi deviarla verso l’alto.

A questo punto il kaishaku, che aveva preso posto in silenzio alle spalle del condannato, lo decapitava; la scelta del kaishaku era lasciata al condannato che si rivolgeva ai suoi migliori amici, nonché ai più bravi con la spada.

 

 

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